Di recente mi è capitato di arrabbiarmi moltissimo guardando un innominabile festival che dovrebbe, teoricamente, trattare l’argomento musica, e invece, parla di tutt’altro. Mi capita spesso, in effetti, di arrabbiarmi perché la musica, nonostante sia onnipresente e faccia a tutti gli effetti parte della vita di tutti (sia di chi l’ascolta e la fruisce consapevolmente, sia di chi invece non se ne interessa attivamente ma ne è passivo ascoltatore), viene considerata meno di zero. Il problema della poca attenzione alla cultura in Italia c’è in generale, ma diventa ancora più grave nel campo della musica. Tutti pretendono di saperne, capirne, nessuno la studia. Non esiste come insegnamento nelle scuole, se non per tre miseri anni durante le scuole medie, e non ci si aspetta che faccia parte del nostro sapere collettivo. Non ci identifica necessariamente come popolo o nazione, almeno, non consapevolmente. Nessuno sa dell’importanza della lirica nel mondo, ma tutti sanno dell’importanza della moda o del vino italiano. Se non conosci la storia o la letteratura è grave, se non conosci la musica, in fondo, sei giustificato. Perché la musica no? A tratti un’arte, a tratti una forma d’intrattenimento, a tratti un orpello di poco valore, la musica cos’è? A questa domanda non sanno rispondere nemmeno molti musicisti che si limitano a fare, interrogandosi sul come ma tralasciando il perché.
“In effetti la musica rispetto alle altre arti ha uno status suo, procuratole anzitutto dalla complessità dei mezzi tecnici e del linguaggio di cui si serve. Il fascino che essa ha sempre esercitato, il suo carattere enigmatico le deriva anzitutto dal suo tipo di espressività: essa esprime senza che si possa mai afferrare il suo oggetto. Il complesso linguaggio della musica non dice nulla attorno a nulla eppure tutti e in qualche modo anche i più rigorosi formalisti, concordano nel riconoscere alla musica un certo potere espressivo, senza tuttavia saper mai precisare che cosa la musica esprima, e in che modo. Questo carattere enigmatico non è poi altro che il vecchissimo problema della semanticità della musica, problema che continua attraverso i secoli, dalla Grecia Antica a oggi a ripresentarsi, anche se in forme diverse, sostanzialmente immutato.
[…]
Il problema centrale della semanticità della musica in definitiva ha determinato, a seconda della sua impostazione, il problema della relazione della musica con le altre arti, e quindi il suo posto nella gerarchia delle arti, il suo valore, le sue funzioni e i suoi compiti.”[1]
Proprio per la sua mancanza di riferimenti diretti alla realtà, la musica è stata per moltissimo tempo (fino al romanticismo) relegata a ruolo di serva delle altre arti. Quindi veniva composta ed eseguita in funzione di eventi, rappresentazione, riti, festività sacre e pagane. Al servizio di:
“Funzione soprattutto ricreativa e utilitaristica; il musicista era uno stipendiato presso la chiesa o presso famiglie nobili, e il suo compito era quello di produrre musica per determinate funzioni o cerimonie per soddisfare quindi ad immediate esigenze. La musica doveva per lo più accompagnare, priva perciò di una funzione autonoma.”[2]
Solo con il romanticismo la musica prende piede come forma d’arte a sé stante e il musicista, finalmente, comincia ad essere considerato alla stregua di qualsiasi altro artista, letterato, pittore o scultore.
“La musica strumentale come gioco di sensazioni piacevoli (Kant), come astratto arabesco (Rousseau) non dice nulla alla nostra ragione, non ha un contenuto intellettuale, morale, educativo, non ha potere altro che sui nostri sensi; diremmo noi oggi che è un’arte asemantica.
Il romanticismo non rifiuta questo presupposto, ma lo considera con occhi del tutto diversi. La musica è sì, un’arte asemantica, cioè, non può dirci nulla di ciò che si può comunicare con il linguaggio comune. Ma questa caratteristica la pone infinitamente al di sopra di ogni normale mezzo di comunicazione.” 2
Ora, in un precedente articolo (https://www.priscacantautrice.com/post/perch%C3%A9-la-musica-fa ) ho già messo nero su bianco alcune mie osservazioni riguardanti l’importanza del linguaggio musicale a livello umano e cognitivo, tralasciando, però l’aspetto culturale. Ed è su questo che vorrei soffermarmi maggiormente qui. Un aspetto da sempre troppo trascurato è questo: l’importanza della musica nella cultura. Ancora molti faticano a comprendere che la musica è cultura.
Ma approfondiamo un momento il concetto di cultura, per niente scontato, troppo spesso frainteso. In questo senso trovo interessante la visione di Winnicott che parla della cultura principalmente come esperienza di gioco che mette in reazione l’io con l’ambiente.
“[…] Così arriviamo al testamento spirituale di Winnicott in La sede dell’esperienza culturale (1967). Cito la sua tesi principale:
«1. Il luogo in cui l’esperienza culturale è ubicata è lo spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente (originariamente l’oggetto). Lo stesso si può dire del gioco. L’esperienza culturale comincia con il vivere in modo creativo, ciò che in primo luogo si manifesta nel gioco.
2. Per ogni singolo individuo l’uso di questo spazio è determinato dalle esperienze di vita che hanno luogo nei primi stadi dell’esistenza dell’individuo.
3. Fin dall’inizio il bambino ha esperienze estremamente intese nello spazio potenziale tra l’oggetto soggettivo e l’oggetto percepito oggettivamente, tra le estensioni-del-me e il non-me. Questo spazio potenziale è al punto dell’azione reciproca tra il non esserci altro che il me e l’esserci oggetti e fenomeni al di fuori del controllo onnipotente.
4. Ciascun bambino ha quindi la propria esperienza positiva o negativa. La dipendenza è estrema. Lo spazio potenziale ha luogo soltanto in rapporto ad un sentimento di fiducia da parte del bambino, vale a dire fiducia relativa alla attendibilità della figura materna o degli elementi ambientali, essendo la fiducia la prova dell’attendibilità che viene gradualmente introiettata.
5. Al fine di studiare il gioco e in seguito la vita culturale dell’individuo, si deve studiare il destino dello spazio potenziale che esiste tra ogni singolo bambino e la figura materna umana (e pertanto fallibile) che è essenzialmente capace di adattarsi grazie al suo amore.
Si vedrà che se questo territorio deve essere pensato come parte dell’organizzazione dell’Io, noi abbiamo qui una parte dell’Io che non è un Io corporeo, che non si basa sul modello del funzionamento del corpo. Queste esperienze appartengono ad un entrare-in-rapporto-con-l’oggetto di un tipo non orgastico, o a quello che si può chiamare relazionalità-dell’Io, nel luogo dove si può dire che la continuità va lasciando il post alla contiguità.» (1967, pp.172-173).
Con tale naturalezza egli sviluppa il concetto dei «fenomeni transizionali» dell’infanzia fino ad includere lo «spazio potenziale» della vita dell’adulto nella cultura.”[3]
Tralasciando alcuni concetti che in questo momento esulano dal discorso principale ma che sicuramente, in un secondo momento, sarebbe davvero interessante approfondire (il concetto dei fenomeni transizionali nell’infanzia viene spesso utilizzato per spiegare gli effetti della ninna-nanna nel bambino) mi interessa qui il pensiero di Winnicott che, sintetizzando, ci dice: la cultura sta all’adulto come l’esperienza del gioco sta al bambino.
Quindi, mi domando, cosa è giocare?
Rispondendo a questa domanda non si può non citare le teorie di Piaget, secondo le quali il gioco nel bambino è lo strumento attraverso il quale egli sviluppa le proprie capacità cognitive, si mette in relazione con il mondo esterno e sviluppa il pensiero astratto.[4] Ora, ditemi se questo non è cultura, ma soprattutto musica.
È provato scientificamente che la musica sviluppa le capacità cognitive più di qualsiasi altra arte o disciplina, la musica è linguaggio e quindi, mette in comunicazione, ma soprattutto, la musica è linguaggio astratto.
Perciò, esattamente come dicevano i filosofi e gli artisti dell’ 800, la musica proprio perché asemantica, è ad un livello diverso rispetto alle altre arti. Non al di sotto, ma al di sopra. Poco importa se quello che dico farà storcere il naso a qualcuno, va detto, che non c’è arte o scienza al mondo che abbia gli stessi effetti sul cervello che la musica ha. E sulle emozioni e sullo sviluppo della persona. Questo aspetto della musica, per quanto mi riguarda, è evidente e palesemente sotto i miei occhi tutti i giorni della mia vita.
Molti che hanno iniziato a suonare da adolescenti spesso dicono di averlo fatto perché suonare uno strumento li aiutava a rimorchiare. Quando mi raccontano questo, mi viene sempre da sorridere, perché, dal mio punto di vista, è ovvio. Una persona che sa suonare ha più sex appeal perché evidentemente è materiale genetico più valido per lo sviluppo della specie. Mentre suoniamo uno strumento musicale le sinapsi del cervello fanno un lavoro talmente elaborato di codici, informazioni, emozioni, sentimenti, schemi motori e tanto altro che necessariamente tutto il nostro essere si illumina.
La musica è senza ombra di dubbio uno strumento potentissimo, una chiave, che apre porte all’interno della nostra mente, sviluppa capacità cognitive, addirittura, ha effetti fisici sulla conformazione del cervello ed ha effetti su tutti gli aspetti dell’essere umano, da quelli più primordiali a quelli più sottili. La mancanza di riferimenti concreti alla realtà la pone su un livello di minore accessibilità, ma maggiore potenzialità per tutti. La chiave è lì. Per quanto mi riguarda, l’accessibilità della musica deve diventare un problema e un argomento sociale e culturale: un problema di tutti. La musica è parte del nostro modo di essere e vivere, dovrebbe essere un diritto invece ad oggi, studiare musica rimane un privilegio di pochi.
Note: [1] Enrico Fubini, L’estetica musicale dal settecento a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2001, pag. X. [2] Enrico Fubini, L’estetica musicale dal settecento a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2001, pag. 110 [3] Pensiero di Winnicott, AA. VV., Armando editore, Roma, 2007, pp. 48-49. [4] Su Piaget esiste una vastissima letteratura, basta fare una ricerca su google e si trovano tutti i riferimenti necessari. Per quanto riguarda, invece, le teorie di Piaget in riferimento alla didattica musicale, segnalo Suoni e significati, musica e attività espressive nella scuola di Mario Baroni, E.D.T. Edizioni di Torino, 1997.
Commentaires